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LO SPAZIO “ALTRO” DELLA NAVE: ESODI E “FUGHE” PER LA LIBERAZIONE

una lettura di

La nave, lo spazio e l’Altro – l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema

È uscito nel marzo 2016 per le edizioni Mimesis un bel libro di Paolo Lago dal titolo La nave, lo spazio e l’Altro – l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, un saggio che legge in modo non scontato il rapporto fra la nave e l’essere umano, soprattutto per come esso si sviluppa nel mondo letterario e cinematografico.

La nave viene qui interpretata come il luogo “eterotopico” per eccellenza, mutuando questo termine dal lessico foucaultiano, il quale introduce, in una conferenza a Tunisi del 1967, questo concetto come affine a quello di utopia. Se però per utopia si intende un luogo “impossibile”, un “non-luogo” che comunque può fungere da guida per percorsi di liberazione, con eterotopia viene pensato un “luogo reale, separato però dal ‘normale’ contesto quotidiano”. (La nave, lo spazio e l’Altro, p.13 – d’ora in poi citato come npa) Per dirla con Foucault, “una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo”. (npa, p.13) La vera e propria “eterotopia”, però, è praticamente sempre anche “eterocronia”, cioè apertura di un tempo “altro”, che si discosta sensibilmente da quello contestato della quotidianità. È entro questo quadro che viene inserita la nave, come “spazio-tempo altro”, che rompe una quotidianità e una normalità generalmente imposte, e apre verso orizzonti sconosciuti, o comunque verso possibilità inattese e spesso sorprendenti. La nave, quindi, come “eterotopia per eccellenza”, anche proprio seguendo le indicazioni foucaultiane, cioè spazio di contestazione per eccellenza e – sempre con Foucault – “serbatoio di immaginazione”: questa è la tesi centrale del libro.

La nave assume, entro questa lettura, le caratteristiche dello spazio “liscio” nomade di cui parlano Deleuze e Guattari in Mille piani, spazio che si contrappone allo spazio “striato” del potere e dell’ordine costituito, “uno scrigno di sogni da opporre alla rigida mappatura del controllo” (npa, p.18). Letteratura e cinema sono i luoghi dove, secondo Paolo Lago, meglio prende forma questa eterotopia così forte e determinante. A partire da questi due ambiti il libro prova, con un ampio excursus, a delineare i tratti di questa avventura, che talvolta assume i lineamenti di un “naufragio”.

“Navi emigranti e dell’esilio”, “navi dell’avventura”, “navi infernali, mostruose e spettrali”, “navi della ricerca e dell’erranza” e “navi in disarmo” sono le cinque grandi tipizzazioni descritte, che si concretizzano in 5 affascinanti capitoli, anticipate da un prologo sull’Odissea e seguite da un molto divertente epilogo sulle “navi da crociera”.

Facciamo qui un invece breve excursus sui temi principali di questi capitoli.

– L’Odissea, che apre il libro vero e proprio, è il viaggio per eccellenza, l’“archetipo” dei viaggi, “serbatoio di immaginazione” primordiale e originario, da cui prende vita un filone letterario, dove si intrecciano mito e magia, che arriva fino ai nostri tempi. Allo stesso tempo, è una sorta di primo Bildungsroman, cioè romanzo di formazione che è insieme percorso psicologico dove l’“eroe” deve soffrire per arrivare alla mèta finale – ovvero, per riprendere la metafora dell’”eterotopia”, per rompere la quotidianità contestata, attraversata dallo spazio striato del potere. Nave come “spazio di salvezza”, via di fuga grazie alla quale fuggire da paesi inospitali, piccola “patria” dove sentirsi a casa propria, spazio a cui fare ritorno. Tutto questo almeno finché non si incontra la terra dei “Feaci”, popolo pacifico e accogliente, che si contrappone a quello violento e chiuso dei “Ciclopi”, che non a caso non conoscono le navi né la navigazione.

– Le navi emigranti e dell’esilio sono caratterizzate da una certa ambiguità: da una parte sono, in positivo, le navi della speranza, rivestite “utopisticamente di connotazioni fantastiche”, (npa, p.31) dall’altra, in negativo, sono navi dell’angoscia, sulle quali si è costretti a salpare per cercare una vita migliore, che portano verso luoghi sconosciuti, dove non è possibile sapere esattamente cosa ci aspetta. Il bel film di Crialese, Nuovo mondo, ha saputo interpretare magistralmente questa ambiguità, dove i “sogni” degli immigrati si infrangono della dura realtà dell’emigrazione: “una volta sbarcati e sottoposti a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati nella ‘società disciplinare’ che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale […] come afferma Foucault, ‘il problema della società industriale è fare in modo che il tempo degli individui possa essere integrato nell’apparato di produzione sotto forma di forza-lavoro’ […] ‘si tratta di costituire il tempo degli individui in forza-lavoro’”. (npa, p.38) Ma nelle sequenze finali del film sembra riproporsi il tema “eterotopico” della rottura dello spazio striato, e “nonostante l’incasellamento disciplinare, sembra voler suggerire il regista, i sogni non muoiono mai: in qualche modo riescono a sopravvivere, ostinatamente, con forza”. (npa, p.39)

– Sia pur con illustri antecedenti nel periodo della grecità, i romanzi delle navi nel tempo d’avventura sono un fenomeno soprattutto moderno, legati al periodo storico in cui l’occidente si accorge di aver “sete d’avventura” e parte alla “conquista” del mondo extra-europeo, determinando i ben noti danni apocalittici che caratterizzano il dispiegarsi della modernità sin dai suoi esordi. La nave così, oltre che “serbatoio di immaginazione”, diventa anche “strumento di sviluppo economico” – sempre seguendo la riflessione foucaultiana. È in questo senso che vanno letti romanzi come I viaggi di Gulliver, Robinson Crusoe, I viaggi di Enrico Walton o il romanzo filosofico di Voltaire Candido. Già comunque con il Gargantua e Pantagruele di Rabelais prende forma il passaggio dal mondo medievale a quello della nascente modernità. La nave comincia ad essere intesa come lo strumento “attraverso il quale dirigersi verso nuove terre e nuovi mondi” (npa, p.69) – per poi colonizzarli brutalmente, andrebbe aggiunto. L’“avventura” diventa un viaggio anche e forse soprattutto con finalità economiche, e questo viene in qualche modo alla luce anche nella letteratura romanzesca dell’epoca. La rivoluzione industriale è alle porte, ed ogni ambito dell’esistente ne è informato. Il settecento diventa il secolo dei viaggi, ma viaggi dove “lo spirito di avventura si incrocia e spesso si sovrappone a quello del commercio” (npa, p.72), dove non si “naufraga” in fuga verso l’ignoto o l’utopia, ma si torna sempre indietro verso la società settecentesca di stampo mercantilistico e borghese – magari con qualche tesoruccio sottratto alle terre oltre oceano che avevano la sventura di cominciare a conoscere il predatore più pericoloso, cioè il mercante-borghese della “vecchia” Europa.

– Le navi “della ricerca e dell’erranza” sono navi di tipo diverso, che viaggiano con scopi di altro genere rispetto a quelle dell’avventura (mercantilistica) appena descritte. Forse potremmo dire queste navi proprio non viaggiano per “scopi”, ma si immergono nelle acque per “errare” in esse e “ricercare” qualcosa che, all’inizio, non sanno nemmeno loro cosa possa essere. Il concetto di beanza, usato da Paolo Lago mutuandolo dalla riflessione di Jean-Pierre Vernant, descrive abbastanza bene questa condizione: si tratta di una specie di beata “sospensione”, una sorta di caduta nell’indistinto in cui sfumano consuetudini e abitudini, e si aprono spazi sconosciuti e inediti. I testi utilizzati per illustrare questa esperienza “straniante” sono Le argonautiche di Apollonio Rodio e Moby Dick di Melville. È vero che nel primo di questi, almeno per quanto riguarda il viaggio d’andata, lo scopo c’è, ed è la ricerca del “vello d’oro”. Ma, sin da subito, la nave “parlante” introduce un elemento spaesante, e comunque il ritorno è una specie di “perdita” in una indefinita “beanza”. Moby Dick è invece sin dall’inizio un romanzo dell’erranza, e la folle caccia alla balena sembra quasi più un pretesto per questo “errare” che non il vero scopo della spedizione. Tuttavia, anche qui s’insinua la modernità oramai imperante, quindi uno scopo surrettizio che, forse inconsapevolmente, regge questo tipo di narrazione: “È proprio grazie alle rotte delle navi baleniere che […] si sono aperte nuove vie di scambio fra l’Europa e le coste del Pacifico. La ricerca di una preda permette quindi di aprire nuove vie, di segnare sulla mappa nuove rotte di comunicazione commerciale, di rendere striato, secondo la terminologia deleuziana […] , uno spazio liscio” (npa, p.114)

– Le navi “mostruose” e “infernali” sembrano essere una specie di “contrappunto” allo spazio striato delle navi del commercio. Già la Narrenschif, la nave dei “folli” dove in Germania venivano, al sorgere della modernità, dispersi gli “improduttivi” e “fastidiosi”, nasce proprio sotto questo segno. Il monstrum, che etimologicamente significa “il meraviglioso”, il “perturbante” rispetto alla cosa data, viene allontanato perché disturba l’ordine che si viene creando alla fine del Medioevo, un ordine fondato sul disciplinamento al lavoro e sulla dismissione delle “cattive” abitudini oziose delle comunità pre-industriali. La storia di Gordon Pym di Egdar Allan Poe, o il Manoscritto trovato in una bottiglia, sempre dello stesso autore, ci parlano di questo “rimosso” della modernità, che ora assume – proprio per questo – caratteristiche spettrali e inquietanti. Ma anche tutta la letteratura “gotica” deve, con ogni probabilità, la sua comparsa a questo tipo di situazione. Le figure dell’Olandese volante o dell’Ebreo errante, nate in questa epoca, hanno la stessa origine. Nasce la figura del diverso per come lo conosciamo ancora oggi noi stessi. La Yorikke, la terribile nave del romanzo La nave morta del misterioso e a sua volta “straniante” scrittore anarchico tedesco Traven, è forse quella che meglio simboleggia tutto questo. Essa è sì una “nave infernale”, ma al tempo stesso “una sorta di ‘luogo liberato’ dal meccanismo del ‘sorvegliare e punire’”. (npa, p.162)

– Le navi “ferme” e in “disarmo”, infine, sono un “caso particolare” della navigazione: sono le uniche che non solcano i mari, ma restano ancorate, quale che sia il motivo, alla fonda. Anch’esse, a loro modo, rappresentano un’eteropica contestazione all’ordine esistente, ed è forse l’autore francese Jean-Claude Izzo colui che ha saputo meglio interpretare questa specie di “ribellione”. In Marinai perduti Izzo descrive una nave ferma, per ragioni economiche, nel porto di Marsiglia – fatto questo che è avvenuto pure realmente, non a Marsiglia ma a Cagliari, al quale tuttavia il romanzo non si ispira, ma che rappresenta una strana coincidenza. Questa fermata prolungata non inibisce però il potenziale eterotopico e sovversivo della nave, ma paradossalmente fa sì che, attraverso la scesa a terra dei marinai, esso inizi a riversarsi sulla terraferma, in una specie di contaminazione “rivoluzionaria” che sconvolge l’immobilismo della città industriale moderna: “[…] i marinai sono come i cartografi, ‘ad ogni viaggio si ridisegna il mondo’; nello stesso modo, si può pensare, si comportano anche nella terraferma: ad ogni passo ridisegnano la città, la ‘liberano’, portano la spazialità del mare, ridisegnano percorsi urbani”. (npa, p.181) Come i suoi marinai, i romanzi di Izzo, dice Paolo Lago, sono veri e propri “esperimenti di geopoetica e geocritica, cioè vere e proprie letture poetiche di luoghi” (npa, p.181) e in questo senso autentiche eterotopie sovversive dell’esistente. Un film che, a suo modo, prova a fare lo stesso è I love Radio Rock di Richard Curtis. Qui una nave ferma nelle acque extra-territoriali vicine all’Inghilterra diffonde illegalmente rock, osteggiato e ignorato dalla cultura ufficiale, causando non pochi problemi all’ordine costituito. È dunque possibile contestare il linguaggio del potere anche restando fermi, non necessariamente “fuggendo” fisicamente. Questo perché si può essere “macchina da guerra nomadica”, usando il linguaggio di Deleuze e Guattari, pur restando “immobili” (ma “veloci”, pronti).

– Infine, l’“epilogo post-moderno”, cioè la crociera. Questo è forse il modo più “normalizzato” di intendere la nave e il viaggio. Ma anche la crociera riserva delle sorprese: il viaggio più tranquillo, “quadrato”, organizzato e incasellato che si possa immaginare, può avere dei risvolti imprevisti, che rompono la normalità e rivelano un mondo altro che proprio non ce la facciamo ad eliminare del tutto. Il libro Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster, mette in evidenza proprio questo, come cioè ad di là della gioiosa apparenza della crociera, si nasconda un mondo a dir poco inquietante, fatto da una parte da una sorta di automi normalizzati, coatti del divertissement, mentre dall’altra, a fare da contrappeso, un proletariato quasi Lumpen che vive delle briciole che il mondo dei primi lascia cadere dalla tavola ben imbandita. “I turisti americani si muovono come nuovi colonialisti nei porti caraibici devastati dalla miseria”. (npa, p.189) “Nella società postmoderna, quindi, sulla nave rimane ben poco da sognare, poiché tutti i sogni e i desideri si materializzano in una gigantesca e finta costruzione che pretende di esaudire tutti i desideri dell’uomo sottoposto al diktat del capitalismo”. (npa, p.190). Ma sono forse due film, Un film parlato di Manoel de Oliveira e Film socialisme di Jean-Luc Godard, quelli che meglio riescono a mettere a fuoco questa tematica. Nel primo, una professoressa di storia “progressista” illustra alla figlia le meraviglie del Mediterraneo e la bellezza delle sue culture, mare che però la nave solca come, di fatto, un suo possesso. Lo sguardo aperto e conciliante, tuttavia, non le salverà dallo scoppio di una bomba messa a bordo da qualche fantomatico “terrorista”, frutto della cultura occidentale e del suo totalitarismo. Il comandante della nave guarda impotente l’orrore dispiegarsi davanti a lui, e “il suo sguardo rappresenta […] quello dell’intera civiltà occidentale che resta attonita di fronte all’orrore che cova nel suo stesso seno”. (npa, p.192) Nel secondo, che per un amaro gioco del destino si svolge sulla Costa Concordia, che di lì a poco diventerà tristemente famosa per la tragedia dell’isola del Giglio (quasi un beffardo inveramento di queste tesi…), accade qualcosa di simile. Questa nave, simbolo ostentato del benessere occidentale, vuole qui rappresentare l’occidente e il suo declino, e non a caso essa stessa tramonterà, al grido di “abbandonare la nave”.

La nave, così, come luogo eterotopico per eccellenza. Luogo che può essere buono o maledetto, estraniante o rassicurante, comunque sempre “altro” rispetto alla quotidianità del “potere” foucaultianamente inteso, rispetto al quale cerca sempre vie di fuga, in movimento o meno che siano.

Niente di meglio, dunque, che chiudere con una citazione sempre da Foucault – vero e proprio deus-ex-machina di questo lavoro di Paolo Lago -, citazione che a buon titolo rappresenta il fil rouge che attraversa tutto il libro e ne dà l’intonazione. Dice infatti Foucault, con il “pensiero-poetante” che caratterizza un po’ tutta la sua filosofia:

“…La nave è l’eterotopia per eccellenza. Le civiltà senza nave sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni si inaridiscono, lo spionaggio si sostituisce all’avventura e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”.

 

(pubblicato qui ==> http://www.lavoroculturale.org/nave-spazio-altro/ e qui ==> http://overthedoors.it/il-lavoro-culturale/una-lettura-di-la-nave-lo-spazio-e-laltro/ )

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